Oggi non dobbiamo stupirci di come la Croazia, con la voce del suo capo di Stato, Kolinda Grabar-Kitarović (nata a Fiume nel 1968, prima Presidente donna della Croazia e la più giovane nella storia del Paese), e quella del suo ministro degli esteri, condanni fortemente la decisione della città di Trieste di inaugurare un monumento a Gabriele d’Annunzio, nel giorno del centesimo anniversario dell’avventura fiumana.
Come europei, e italiani, cioè del grande Paese fondatore dell’Unione europea, non possiamo che essere d’accordo con gli amici croati. Le tombe nelle cripte di Vienna sono sigillate col piombo, le trincee ed i camminamenti sono ricoperti di terra e di erba. La “lettera ai Dalmati” di Gabriele d’Annunzio è stata archiviata, altri fantasmi si spera spariti per sempre: italijanska vojaska gobda e gli ustascia di Ante Pavelic. Nessun fantasma dovrebbe aggirarsi per la Mitteleuropa. E, invece, per colpa di una piccola statua al poeta nazionalista e poi fascista italiano Gabriele d’Annunzio si sentono delle voci. Qualcuno – italiano – scherza con la storia. La nostalgia fa strani scherzi: le piste di “neve” del Vate a Fiume sono scambiate per una rivoluzione in stile sessantotto. I legionari e le legionarie di Gabriele d’Annunzio non anticiparono il sessantotto! Nella spedizione del Vate c’è l’anticipazione della marcia su Roma e Fiume diventò per un breve periodo il laboratorio politico del ventennio fascista.
Come storici, però, ricordiamo l’evento. Puntando la nostra attenzione su alcuni fatti.
L’IMPRESA FIUMANA CENTO ANNI DOPO. COME RICORDARLA OGGI
Di Roberto Coaloa
Cento anni fa, il 12 settembre 1919 Gabriele d’Annunzio da Ronchi di Monfalcone, a capo di una legione di volontari dell’Esercito, arrivò in auto a Fiume (oggi Rijeka, città della Croazia) e occupò la città contestata alla sovranità italiana.
Ronchi di Monfalcone, oggi, come cittadina facente parte della regione italiana Friuli-Venezia Giulia, ha il nome di Ronchi dei Legionari, proprio in ricordo di quel fatale giorno del 1919.

Gabriele d’Annunzio (il primo a destra con gli occhiali) sull’auto che lo porta a Fiume. Il 12 settembre 1919.
Lenin sostenne la Reggenza dannunziana, e come riferì Nicola Bombacci, il leader bolscevico, contestando l’inattività dei socialisti italiani, definì polemicamente il poeta Gabriele d’Annunzio come l’unica persona in grado di portare avanti la rivoluzione in Italia. Era, insomma, uno schiaffo ai socialisti italiani, incapaci per Lenin di seguire l’esempio russo. Notevole, tuttavia, fu la fortuna nella rivoluzione di Fiume, di un Lenin alleato di d’Annunzio. L’appoggio leninista, infatti, fu ricambiato: difatti, la Reggenza del Carnaro fu la prima autorità governativa al mondo a riconoscere l’Unione Sovietica. Bisogna anche ricordare che il mercantile Persia con gli armamenti da portare ai controrivoluzionari russi fu abbordato dal sindacalista Giuseppe Giulietti e dagli uscocchi (veri pirati croati dell’Adriatico) per esser dirottato a Fiume, dove fu accolto da d’Annunzio stesso con tutti gli onori.
L’eclissi del vecchio ordine europeo (per intenderci quello del Kaiser Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria e re d’Ungheria), si frantumò nella Grande guerra, che cancellò dalla Storia non solo secolari regni, ma anche quelle antiche dinastie che avevano caratterizzato la storia del vecchio Continente. Dopo il 1918 fu plasmata una nuova Europa. I vincitori del primo conflitto mondiale desideravano un «Mondo nuovo» e fecero di tutto per annientare l’Impero d’Austria-Ungheria, il Reich di Guglielmo II e l’Impero ottomano. Non è vero, come sostiene una certa vulgata italiana, che la conclusione del conflitto mondiale non aveva preventivato la dissoluzione dell’Austria-Ungheria. Anzi! Fu la nascita del nuovo Stato balcanico, chiamato Jugoslavia, ha complicare l’ormai secolare questione adriatica, a sfavore degli intenti espansionistici del Regno d’Italia.
Nella distruzione della Duplice Monarchia degli Asburgo fu fatale il ruolo della massoneria in Italia tra il 1914 e il 1918 – messo troppo spesso in un andito buio dalla storiografia, ingiustamente.
La ricostruzione del ruolo italiano nel conflitto, spiega alcuni passaggi fondamentali della Grande guerra: il rifiuto di una pace separata da parte delle potenze dell’Intesa, alleate dell’Italia, il non ascolto da parte dell’Intesa del grido di dolore del pontefice Benedetto XV sull’«inutile strage» e la disfatta italiana di Caporetto, dove tutti i responsabili di quell’inaudita catastrofe, da Pietro Badoglio a Luigi Bongiovanni, erano affiliati a una loggia massonica, oltre a essere amici personali di Re Vittorio Emanuele III, massone della prima ora.
I vincitori della Grande guerra, quindi, erano tutti massoni. Le élites al potere in Francia, Inghilterra, Italia e Stati Uniti d’America erano unite da un forte accordo massonico. Nel maggio 1915 i massoni italiani si mobilitarono con tutte le loro logge nel cosiddetto fronte interno, con azioni di propaganda (memorabili gli appelli di Gabriele d’Annunzio e di Cesare Battisti per l’intervento), affiancando le autorità nell’individuazione degli elementi disfattisti e dei sabotatori, e trasformandosi pertanto in una sorta di milizia civile. Il conflitto era per il Re d’Italia e per i massoni il compimento del Risorgimento e la sua evoluzione verso un «Mondo nuovo» dominato dalla democrazia e dall’armonia dei popoli. Il Regno d’Italia s’inventò la «Quarta guerra d’indipendenza» contro il nemico storico, l’Impero degli Asburgo, ma poi il nazionalismo sempre più radicale superò l’élite massonica: le logge italiane furono profondamente trasformate all’appuntamento con il dopoguerra, al pari dello Stato liberale che avevano contribuito a creare.
Gabriele d’Annunzio, infatti, dopo aver proclamato la Reggenza italiana del Carnaro, cercò di dar vita a una singolare forma di Stato, di cui abbozza un originale ordinamento, con visioni sociali anticipatrici, che contrastarono, però, con un futuro oltranzismo di stile fascista. Gabriele d’Annunzio, ad esempio, per delegittimare l’avversario si prodigò con gli strumenti della penna (a lui congeniale) per ridicolizzarlo. Nitti fu soprannominato Cagoia. L’intolleranza (non solo con la penna) era la regola. Dalla festa della rivoluzione fiumana si passò al circo liberticida. Per il poeta, Nitti era un basso crapulone senza patria. Nel 1919, invece, merito fondamentale di Nitti era di tutelare la legalità democratica dello Stato liberale. Il politico Giovanni Amendola, sostenitore di Nitti (morto in Francia, il 7 aprile 1926, per le conseguenze dell’attentato avvenuto il 20 luglio 1925, in provincia di Pistoia, a colpi di bastone da parte di una quindicina di uomini, capitanati dallo squadrista Carlo Scorza, futuro segretario del Partito nazionale fascista), capiva che il movimento dei legionari di Gabriele d’Annunzio a Fiume puntava più in alto di una “impresa”: a Roma, al governo, allo Stato. L’impresa fiumana voleva spazzare via non solo il ministero di Nitti, ma tutto quel poco di regime democratico, che si era salvato dal ciclone militarista bellico della Grande guerra. Che fosse in atto un ben orchestrato attacco al cuore dello Stato liberale non sfuggiva ai suoi più strenui e coerenti fautori. Amendola scriveva all’amico Albertini: «Chi vive profondamente il sentimento della Patria non può, in questo momento, far altro che schierarsi con ogni risolutezza dalla parte dello Stato, che pericola tra le follie patriottarde e quelle bolsceviche… Vi è tutto il mondo che è salito con la guerra, che si difende ferocemente contro la smobilitazione e la ricostruzione pacifica ed in quel mondo l’impresa dannunziana ha trovato i mezzi e le indispensabili connivenze… Ora Nitti ha molti difetti; ma creda che la reazione contro di lui non è dovuta ai difetti, ma alle buone intenzioni ed alla sana volontà di ricostruzione».
Gabriele d’Annunzio sa che la sua avventura non è destinata a durare e che il Governo sarà costretto, per motivi di politica internazionale, a soffocarla. Nitti si impose a livello internazionale con la sua fermezza mossa dal desiderio di pace e questo era l’aspetto che non gli perdonavano i sovvertitori dell’ordine costituzionale che, fermati nel loro primo tentativo a Fiume, provvedevano a vomitare sul politico italiano le ingiurie più turpi e “immaginifiche”.
Alla fine dell’avventura, Gabriele d’Annunzio, quando la lotta con le truppe regolari si trasforma in rissa fratricida, abbandona alla chetichella Fiume.
Oggi non dobbiamo stupirci di come la Croazia, con la voce del suo capo di Stato, Kolinda Grabar-Kitarović (nata a Fiume nel 1968, prima Presidente donna della Croazia e la più giovane nella storia del Paese), e quella del suo ministro degli esteri, condanni fortemente la decisione della città di Trieste di inaugurare un monumento a Gabriele d’Annunzio nel giorno del centesimo anniversario dell’avventura fiumana. Come europei, e italiani, cioè del grande Paese fondatore dell’Unione europea, non possiamo che essere d’accordo con gli amici croati. I legionari e le legionarie di Gabriele d’Annunzio non anticiparono il sessantotto! Nella spedizione del Vate c’è l’anticipazione della marcia su Roma e Fiume diventò per un breve periodo il laboratorio politico del ventennio fascista. A Fiume, Gabriele d’Annunzio sperimentò la politica di massa, offrì al fascismo il mito della romanità, il braccio teso e i saluti come “Eia eia alalà”, la canzone Giovinezza, il legame mistico tra la folla e il Capo, a suon di marcette.
Come storici, però, ricordiamo l’evento. Puntando la nostra attenzione su alcuni fatti, che sintetizzati al massimo per il lettore sono i seguenti.
La Croazia è dal 1º luglio 2013 il ventottesimo Stato membro dell’Unione europea, con una popolazione di 4.154.200 abitanti (2017), la sua capitale è Zagabria con 792.875 abitanti (ultimo censimento nel 2011). Insieme a Cipro, Bulgaria e Romania, la Croazia ha sottoscritto la Convenzione di Schengen. Questi quattro Stati, però, restano fuori dallo Spazio Schengen per mancanza di adeguamenti tecnici e mantengono quindi i controlli alle frontiere.
Al termine della Grande guerra, nel 1919, con il Trattato di Versailles, la Croazia-Slavonia e la Dalmazia entrarono a far parte del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, successivamente denominato (1929) Regno di Jugoslavia, mentre l’Istria e la città di Fiume furono annesse al Regno d’Italia del quale fecero parte integrante fino al termine della Seconda guerra mondiale. Nel 1939 la Croazia divenne un’entità autonoma (Banato di Croazia). Nel 1941, nel corso della Seconda guerra mondiale, grazie all’appoggio italo-tedesco, la Croazia si costituì in Stato nominalmente indipendente, ma di fatto satellite delle Potenze dell’Asse, con un governo collaborazionista presieduto da Ante Pavelić.
Da sottolineare: c’è stata la Seconda guerra mondiale e noi italiani abbiamo provocato tutto il male possibile, insieme ai nazisti, nei Balcani. Da qui poi l’atrocità delle foibe, ritorsione comunista alle atrocità commesse dai fascisti nei Balcani. Una vendetta atroce, sulla pelle delle popolazioni italiane, nella Jugoslavia di Tito. Oggi, quindi, se un italiano omaggia Gabriele d’Annunzio, simbolo della cultura fascista e del nazionalismo italiano militaresco, non può trovare, per così dire, grande “simpatia” in Slovenia, Croazia, Serbia e Montenegro…
Altro: Fiume e Gabriele d’Annunzio non posso essere paragonati al movimento del 1968. Tra gli States e l’Europa, il 1968 fu soprattutto un movimento pacifista. Nulla a che fare con il clima guerrafondaio alla D’Annunzio con i suoi legionari pronti a “menar le mani”. Nel 1968 una lunga tradizione di non violenza, risposta alla guerra del Vietnam, incontrava la cultura pacifista ottocentesca di Tolstoj, che, all’inizio del Novecento da Gandhi arrivava fino al secondo dopoguerra a Martin Luther King.