
La storia. Le ricerche d’archivio di una squadra di studiosi del Risorgimento
LA VERITÀ SUI MOTI DEL 1821 IN PIEMONTE
Di Roberto Coaloa
Chi oggi si rechi per quel di Alessandria (la città natale di Andrea Vochieri, Urbano Rattazzi, Umberto Eco, Sibilla Aleramo, Gianni Rivera e Renzo Montagnani) trova gente simpatica e curiosa, avvocati e architetti che pronunciano la erre in maniera molto snob, una miriade di pasticcerie e buoni ristoranti. Nell’Ottocento, città di confine del Regno di Sardegna, Alessandria fu una delle principali strutture militari dello Stato che intraprese le guerre per l’Unità. La sua Cittadella era celebre. Nel 1821, il 10 marzo, i moti scoppiarono nella città e nella Cittadella, quando fu issato il Tricolore per la prima volta. Insomma, il sentimento nazionale parte da qui, ai due bordi del fiume Tanaro.

Alessandria. La Cittadella. Marzo 2021. Particolare del suo ampio fossato, che circonda l’imponente fortezza a esagono. Il fossato fu innalzato di tre piedi nel 1757 e sottoposto a vari progetti per inondare i bacini della fortezza, tutt’ora ben conservati, convogliandovi le acque del Tanaro. A tale scopo era prevista la chiusura mediante cateratte mobili del ponte sul fiume, per trasformarlo in un “Pont-eclusé”.
Dunque c’era Alessandria all’inizio dell’Unità, ma non c’erano gli alessandrini. Le forze che sostennero i moti del 1821, infatti, provenivano da altre parti dello Stato piemontese di allora: dalla Savoia, da Torino, da Aosta, dal cuneese, da Biella, da Mortara, dalla Lomellina e da Genova.
La simpatica gente d’oggi non me ne abbia se dirò cose poco gentili sui loro antenati. Come storico devo riferire quel che mi risulta dai documenti e non quello che potrebbe o dovrebbe far piacere alla gente.
Per prima cosa il tricolore sventolato ad Alessandria non era verde, bianco e rosso. La bandiera era rossa, verde e azzurra. Ricordava quel colore dell’ultimo regno d’Italia, così caro ai lombardi, primo fra tutti, in quei giorni di sfida aperta contro l’Austria, Alessandro Manzoni.
Nel raccontare i moti del 1821 in Piemonte occorre ricordare il momento storico in cui essi si svilupparono. Alla fine dell’avventura napoleonica, il Congresso di Vienna creò in Italia dei piccoli Stati fra i quali erano assenti legami di tipo federale. L’unico Stato governato da una dinastia italiana era il Regno di Sardegna.

Piazza Carlo Alberto e l’ingresso del Museo Nazionale del Risorgimento italiano. Torino. Gennaio 2019.
Di fronte al crescente malcontento del ceto più istruito e di una parte della nobiltà, il Re di Sardegna, Vittorio Emanuele I, poco più che sessantenne, ma provato dagli anni di esilio, aveva incaricato il ministro Prospero Balbo di preparare un piano di riforme civili. Balbo era un nobile conservatore ma illuminato, che aveva aderito al regime francese, con i suoi figli (Ferdinando, come militare, trovò giovanissimo la morte durante la ritirata di Russia). Dell’esperienza francese aveva colto l’importanza di una amministrazione moderna. Balbo, quindi, cercò di modernizzare lo Stato sabaudo con l’introduzione di una serie di provvedimenti incentrati sulla creazione di un organo centrale consultivo e sul parziale ristabilimento della legislazione napoleonica. Lo scoppio della rivoluzione di Napoli accentuò però la resistenza della parte più retriva e reazionaria della classe dirigente e bloccò così il movimento riformatore.

Franco Della Peruta (a sinistra) con un gruppo di archivisti e studiosi al Museo del Risorgimento di Milano. Giugno 2011.
L’iniziativa passò allora, come ha notato lo storico Franco Della Peruta, «nelle mani di un gruppo di uomini più giovani, appartenenti anch’essi al ceto aristocratico, i quali si facevano portatori delle istanze di rinnovamento che andavano maturando in Piemonte e tra i quali, accanto a Luigi Ornato, Carlo Vidua e Cesare Balbo (figlio di Prospero), spiccava la nobile figura di Santorre di Santa Rosa». Questa giovane nobiltà piemontese, sensibile all’insegnamento morale di Vittorio Alfieri, intendeva rimanere fedele alla monarchia, di cui si proponeva di fare – con il suo esercito e le sue tradizioni familiari – il fulcro intorno a cui organizzare lo Stato liberale e lo strumento principale della lotta per l’indipendenza dell’Austria: una lotta giudicata indispensabile perché questi uomini, a differenza dei carbonari nel Mezzogiorno, ponevano con determinazione il problema nazionale italiano, a partire dalla liberazione del Lombardo-Veneto.

Schedari al Museo del Risorgimento di Milano
Al gruppo nobiliare si affiancarono frazioni borghesi ed elementi militari, organizzati nella Federazione, cui aderirono anche esponenti della nobiltà. Il campo liberale, al quale restarono estranee le larghe masse, fu però indebolito nel corso del 1820 dal contrasto con la parte più avanzata del movimento settario, che voleva la Costituzione di Cadice del 1812, e i nobili liberali, favorevoli invece a un Parlamento bicamerale in cui la Camera alta, di nomina regia, salvaguardasse il privilegio politico dell’aristocrazia.
Nel 1820 si infittirono i contatti tra i patrioti piemontesi e quelli della Lombardia dove, accanto alla Federazione, si era andata diffondendo la Carboneria. Nel giugno 1820, infatti, il “milanese” Silvio Pellico, per conto della Carboneria, fece un viaggio a Torino.
All’interno della famiglia reale piemontese c’era un giovane principe, Carlo Alberto, che apparteneva al ramo cadetto dei Carignano ed era cugino del re. Era anche l’erede presunto al trono perché né Vittorio Emanuele I né il fratello Carlo Felice avevano eredi maschi e la successione al trono era regolata dalla legge salica, che escludeva le femmine. Era nato il 2 ottobre 1798 nel Palazzo Carignano di Torino (ora sede del Museo Nazionale del Risorgimento italiano) da Maria Cristina Albertina di Sassonia Curlandia e da Carlo Emanuele. Quest’ultimo apparteneva al ramo collaterale di Casa Savoia il cui capostipite era stato Tommaso Francesco, fratello di Vittorio Amedeo I e primo principe di Carignano. Entrambi i genitori dimostravano un atteggiamento anticonformista, rispetto a quello del Re Carlo Emanuele IV fratello maggiore di Vittorio Emanuele, che li credeva di simpatie giacobine. All’approssimarsi della guerra del 1799 tra i francesi e gli austrorussi, i principi di Carignano con Carlo Alberto ancora in fasce si erano trasferiti a Parigi, dove poco dopo moriva il padre. La madre si risposò con Giuseppe Massimiliano Thibaut de Montléart. Dopo la Restaurazione, il Re Vittorio Emanuele I lo volle a corte, come erede presuntivo al trono, e, nel 1816, a diciotto anni, Carlo Alberto era stato emancipato e aveva avuto come scudiero Giacinto di Collegno, di cinque anni più vecchio, già ufficiale napoleonico insignito della Legion d’Onore. Il 30 settembre 1817, il principe aveva sposato nella Chiesa di Santa Maria del Fiore a Firenze la principessa Maria Teresa Francesca d’Asburgo Lorena, figlia di Ferdinando III granduca di Toscana, arciduchessa della famiglia imperiale austriaca. Il 14 marzo 1820 nasceva il primo figlio, l’erede, il futuro Re Vittorio Emanuele II.

Il conte Cesare Balbo. Da una scultura al Museo Nazionale del Risorgimento italiano di Torino. Giugno 2011.
Collegno introdusse presso l’entourage del Principe Carlo Alberto alcuni giovani della nobiltà piemontese animati dagli ideali nazionali e patriottici, fra i quali: Luigi Provana, Luigi Ornato, Santorre di Santa Rosa, Roberto d’Azeglio, Cesare Balbo, Guglielmo Gribaldi Moffa di Lisio, Carlo Emanuele Asinari di San Marzano e Alberto Nota, che fu assunto come segretario.
Quando Silvio Pellico giunse a Torino, nel giugno 1820, cercò di attrarre personaggi vicini al principe nella setta.
Nel clima della Restaurazione, la polizia asburgica era ovunque e, allarmata per lo scoppio costituzionale a Napoli (il 2 luglio, dopo quello di Spagna del 1 gennaio), scoprì la trama della Carboneria. Piero Maroncelli, che aveva iniziato Pellico, fu arrestato. Il 13 ottobre 1820 fu catturato lo stesso Pellico a Milano, in Casa Porro.
All’inizio del 1821, mentre intraprende la spedizione militare per abbattere i liberal-costituzionali nel Regno delle Due Sicilie, l’Impero d’Austria intensificò la repressione della Carboneria. Chiuso con la richiesta di pesanti condanne il processo a carico dei carbonari con centro a Fratta Polesine, l’inquirente Antonio Salvotti chiese d’interrogare Maroncelli e Pellico, che non fecero parola sul Principe Carlo Alberto.
Nel 1821, a Torino, l’erede al trono, che sicuramente era interessato a prendere la spada per una guerra contro l’Austria, era attratto dalla cospirazione costituzionalista, che si legava alla causa italiana. L’Impero degli Asburgo, però, era in quel momento l’alleato principale del Re Vittorio Emanuele I. Il livello di connivenza tra il napoleonico principe di Carignano e i cospiratori aveva raggiunto il suo apice all’inizio del 1821. C’era la Carboneria, ma ad altre sigle appartenevano i cospiratori: massoni (come il Principe della Cisterna e Roberto d’Azeglio), federati e adelfi.
Nella capitale del Regno di Sardegna, dopo gli incidenti del 12 gennaio 1821, la tensione tra le forze reazionarie da una parte e quelle liberali (con tendenze tradizionalistiche di una parte dell’aristocrazia) e innovatrici della maggioranza degli intellettuali del Paese era salita alle stelle. Il caos era partito da una semplice bravata di quattro studenti dell’Ateneo (Albino Rossi, Carlo Maoletti, Luigi Chiocchetti e Angelo Biandrini), l’11 gennaio 1821, durante il carnevale. Gli studenti erano entrati al Teatro d’Angennes (ora Gianduia, in via Principe Amedeo), dove recitava Carlotta Marchionni, indossando il bonnet rouge, l’allora in voga cappello in lana rossa con fiocco nero. I due colori erano anche quelli della Carboneria e i carabinieri reali, colta l’allusione politica, arrestarono all’uscita dal teatro Albino Rossi e Luigi Chiocchetti fu preso a casa sua. L’indomani, diffusasi la notizia dell’arresto, l’università insorse. Intervenne l’esercito con sciabole e baionette per ordine del governatore della capitale, il conte Thaon di Revel, che fece abbattere le porte dell’Ateneo dai granatieri. Alla fine della giornata si contarono una trentina di feriti gravi tra gli studenti e furono effettuati oltre sessanta arresti. Gli incidenti potevano finire in tragedia senza l’intervento del conte Cesare Balbo, figlio del ministro Prospero, che si pose come scudo tra l’esercito e gli studenti. All’inizio di marzo cominciarono poi a farsi insistenti le voci dell’imminente intervento austriaco a Napoli, e i liberali decisero perciò di passare all’azione. La monarchia piemontese doveva mettersi alla testa dell’esercito e irrompere sulla Lombardia per cogliere alle spalle gli austriaci impegnati nel Sud, con l’obiettivo di creare un Regno costituzionale dell’Alta Italia.
Nelle sofferte pagine Della rivoluzione piemontese nel 1821 Santa Rosa dichiarò che il Principe Carlo Alberto s’era impegnato a promulgare la costituzione spagnola, ma in seguito «capo spergiuro», aveva abbandonato i suoi sodali costretti a trasformare in rivoluzione quella che avevano sognato come pacifico cambio istituzionale. Da parte sabauda, l’interessato Carlo Alberto respinse l’accusa di aver compromesso i ribelli, rivendicando con accento solenne nella sua semplicità l’onore del suo Piemonte dopo la rivoluzione dei militari. Così si evince, da una lettera del Principe di Carignano, da «Firenze, 11 mai 1822», a sua madre: «Notre révolution est loin de me faire mésestimer mon pays… Sous tous les rapports, je m’estime infinement heureux d’être Piémontais».
Santa Rosa, alla rivoluzione piemontese, vi pensava da quando aveva iniziato a scrivere Doveri e speranze d’Italia, poi mutato in Delle speranze degli Italiani: un testo edito nel 1920 a cura di Adolfo Colombo e ripubblicato in anastatica, circa quindici anni fa, con prefazione di Piero Bonati per il 60° della loggia “Santarosa” n. 1 di Alessandria (Grande Oriente d’Italia). In sintesi, in quelle pagine Santa Rosa riconobbe il debito dell’Italia verso l’Imperatore Napoleone e affermò che i militari debbono servire il sovrano sino a quando egli è in sintonia con i suoi popoli.
Il Principe Carlo Alberto alla vigilia dei moti piemontesi era attento ai fermenti dei patrioti lombardi, che aspettavano un esercito costituzionale piemontese pronto ad attraversare il Ticino.
Alle ore 20, del 6 marzo 1821, Santorre di Santa Rosa, Giacinto Provana di Collegno, Carlo Emanuele Asinari di San Marzano, Guglielmo Moffa di Lisio e Roberto d’Azeglio incontrarono Carlo Alberto, che durante i mesi della cospirazione aveva assicurato il suo appoggio. Così fece anche quella sera, dichiarandosi favorevole all’azione militare. Si trattava infatti di far sollevare l’esercito, circondare il castello di Moncalieri, dove risiedeva Re Vittorio Emanuele I, e costringere il vecchio sovrano a deliberare sia la costituzione che l’entrata in guerra contro l’Austria. Il ruolo di Carlo Alberto sarebbe stato, formalmente, quello di mediatore fra i congiurati e il sovrano.
Quella che doveva diventare una rivoluzione piemontese si trasformò nel giro di qualche settimana in una tragedia per molti, soprattutto militari e aristocratici che avevano appoggiato e poi sostenuto la cospirazione. Ci fu una generale impreparazione all’evento. Soprattutto mancò l’appoggio risoluto del principe, che già la mattina del giorno dopo, il 7 marzo, cambiò l’idea e ne informò i cospiratori. Per di più convocò il Ministro della Guerra, Alessandro Saluzzo di Monesiglio, dichiarando di aver scoperto un complotto rivoluzionario. Fu un tentativo di sganciarsi dalla cospirazione che, tuttavia, continuò a incoraggiare il giorno dopo, in occasione di un’altra visita di Santa Rosa e di San Marzano. Costoro però si insospettirono e diedero disposizioni per annullare l’insurrezione militare che doveva scoppiare il 10 marzo. Lo stesso giorno Carlo Alberto, completamente pentito, corse a Moncalieri da Re Vittorio Emanuele I svelandogli ogni cosa e chiedendogli perdono. Ma era troppo tardi: nella notte la guarnigione di Alessandria, comandata da Guglielmo Ansaldi, che l’8 marzo si trovava a Torino alla riunione dei capi liberali in cui, di fronte alle esitazioni di Carlo Alberto, fu deciso d’iniziare subito la rivoluzione in Alessandria, si sollevò. Gli altri rivoluzionari, a questo punto, benché abbandonati dal Principe, decisero di agire. Il mattino del 10 marzo, ad Alessandria, riuniti nella cittadella i dragoni del re e la brigata Genova, Ansaldi proclamò la costituzione spagnola e il Regno d’Italia e fece inalberare per la prima volta il tricolore (che come abbiamo notato non è quello verde, bianco e rosso). Creata una giunta provvisoria di governo Ansaldi diventò presidente e l’11 marzo dichiarò lo stato di guerra con l’Austria e la mobilitazione dell’esercito «italiano».
Uno dei contemporanei più attenti alle giornate di Alessandria fu Pietro Civalieri, che raccolse molti documenti originali. Pietro nacque ad Alessandria il 1 agosto 1787 da Annibale e da Maria Antonia Gabriella Mantelli. Nel 1799 fu inviato a Roma e studiò nel Collegio Clementino, fondato dallo zio Antonio, padre somasco, che allora ne era Padre generale, fino alla morte di costui nel 1803. Rimase nel collegio fino al 1805 e si trattenne ancora un anno a Roma per frequentare l’accademia ecclesiastica della Sapienza; fece ritorno ad Alessandria nel 1806 per completare gli studi. Negli anni del governo repubblicano e poi imperiale in Piemonte aderì alle idee filofrancesi e si iscrisse alla Massoneria. Nell’ottobre 1813 fece parte della delegazione che doveva rendere omaggio all’Imperatrice recandosi a Parigi (a proprie spese) a nome della bonne Ville d’Alexandrie. La deputazione alessandrina era presieduta dal marchese Ambrogio Ghilini e comprendeva anche il cugino di Pietro, il barone Gaspare Boidi, Maire adjoint; il marchese Luigi Fàa di Bruno non accettò di fame parte. A seguito di quell’incarico, Pietro divenne Guardia d’onore di Napoleone I, Cavaliere dell’Impero francese e ricevette la decorazione all’Ordine della Riunione nel 1814. Nel periodo della Restaurazione si appassionò sempre di più alla storia, raccogliendo materiali originali proprio a partire dai moti del 1821, poi inseriti nei suoi “cartolari”. Civalieri simpatizzava con i cospiratori, ma non fu tenero nel giudizio sugli alessandrini. Scrisse: «La rivoluzione scoppiò nel modo descritto nei documenti numero 2 e 3. È esagerato nel numero 1 il numero degli alessandrini entrati nella notte in Cittadella, che non fu maggiore d’una sessantina. Meno i capi che formarono la giunta, erano gente di poca voglia, e di poca moralità, indotti dalla speranza di guadagno futuro».
Negli stessi giorni dell’occupazione della Cittadella di Alessandria fu occupata anche quella di Vercelli. Re Vittorio Emanuele I tradì i giovani cospiratori e abdicò, nominando come successore il fratello Carlo Felice. Con l’erede a Modena, Carlo Alberto fu nominato reggente e il giorno successivo, nella serata del 13 marzo 1821, concesse la costituzione. Tuttavia l’atto venne sconfessato da Carlo Felice, il quale obbligò il reggente a lasciare Torino per riunirsi a lui. Mancato l’appoggio del principe, i rivoluzionari vennero sconfitti, nonostante la formazione di un governo presieduto da Santa Rosa. La fuga del Principe Carlo Alberto rese inutile anche l’insurrezione di Genova e Santa Rosa si trovò a concludere, in una battaglia già perduta, i moti del 1821.
Il 27 marzo, Santa Rosa indirizzò all’esercito un Ordine del giorno dove risuonano parole amare: «Le nostre insegne sono quelle del Re; e se la provvidenza ha voluto mettere ad estrema prova il nostro coraggio coll’affliggerci della doppia sventura dell’abdicazione di un Re, caro al suo popolo, e dell’assenza del suo successore, il quale era tanta nostra speranza, ed ora si trova fra i nostri nemici, e costretto a parlare un linguaggio, che non potremo mai riconoscere dal suo cuore, noi sempre ci rammenteremo, e in ogni fortuna, che la nostra fedeltà ai Principi di Savoia deve agguagliare il nostro affetto alla Costituzione, dalla quale le nostre famiglie aspettano la loro sicurezza e la loro felicità».
Le truppe rivoluzionarie di Santa Rosa non furono appoggiate dai soldati realisti. A quest’ultimi si aggiunsero i nemici austriaci. La tragedia finì in beffa. La notte del 7 aprile 1821, i quattro mila soldati della rivoluzione piemontese, con sei cannoni, si accampavano in prossimità del torrente Agogna, poco lontano da Novara. L’8 aprile avvenne lo scontro con gli altrettanti soldati fedeli al Re appoggiati da ben quindicimila austriaci. Calava il sipario con una baruffa: una trentina fra morti e feriti da entrambe le parti e duecentocinquanta piemontesi fatti prigionieri dagli austriaci.

Il protagonista dei moti del 1821, Charles Henri Pellegrini, tra i figli Julia e Carlos, che diventerà presidente dell’Argentina
Iniziò la fuga dei compromessi, con avventure picaresche degne di nota, come quella di Charles Henri Pellegrini, figlio di Bernardo Bartolomeo Pellegrini, originario del Canton Ticino. Charles Henri, nato a Chambéry il 28 luglio 1800, era a Torino all’università quando scoppiarono i moti a San Salvario, allora un borgo, fuori Porta Nuova. Il capitano Vittorio Ferrero, ex combattente napoleonico in Spagna, dove aveva ricevuto undici ferite, comandante di una compagnia della Legione Leggera, raggiunse Torino al mattino, domenica 11 marzo. Una certa storiografia non è larga di indulgenza verso i prodi compagni di Vittorio Ferrero, chiamandoli scapestrati. Erano ottanta soldati, certamente imprudenti. Erano giovani e davanti a loro avevano una guarnigione di circa seimila uomini e quattrocento carabinieri. Non ci fu una carneficina perché il Revel e la Corte non vollero rinnovare le “prodezze” compiute all’università all’inizio dell’anno. Ma ciò non toglie nulla al coraggio di Vittorio Ferrero, il quale trovatosi quasi abbandonato, restò sul posto, pronto eroicamente a morire. Santa Rosa commenterà così l’evento: «La storia delle rivoluzioni serba pochi esempi di azione così tanto arrischiata. Durerà immortale il nome di Ferrero, e sarà pronunziato con ossequio, finché arda sulla terra il sacro fuoco di libertà».
Davanti alla chiesetta di San Salvario, Ferrero innalzò il tricolore nero rosso azzurro dei carbonari al grido di «Viva il re e la costituzione di Spagna!». Tra i cinquanta studenti che si unirono a Ferrero ci fu Pellegrini, che ci lasciò due testimonianze scritte sui moti del 1821, una in francese, l’altra in italiano, come ricorda Antonio Manno nella sua bibliografia nel fondamentale Informazioni sul Ventuno in Piemonte.
Pellegrini si unì ai rivoltosi e si diresse ad Alessandria. Ferrero attraversò il Valentino con il suo reparto, gli studenti e alcune decine di borghesi. Raggiunse Chieri. Poi, i valorosi uomini di Ferrero, lunedì 12 marzo, a mezzogiorno, arrivarono a Villanova e alla sera, racconta Brofferio: «ecco presentarsi ai loro sguardi le antiche torri d’Asti, della terra per tanti anni rischiarata dall’astro della Repubblica, della città dove nacque Alfieri, il grande tribuno della libertà italiana». Martedì 13 marzo erano già ad Alessandria, dove arrivarono anche studenti da Pavia. Gli studenti si unirono in un solo corpo, al quale diedero nome di «Battaglione di Minerva». Repressi i moti, Pellegrini esulò in Francia, dove frequentò a Parigi l’École polytechnique, terminata nel 1825. Nel 1828, troviamo Charles Henri Pellegrini in Sud America. Morì a Buenos Aires il 12 ottobre 1875. Pittore alla moda, ritrasse le dame di Buenos Aires, eseguì dei bellissimi acquarelli sui luoghi caratteristici della capitale e nel 1853 fondò la Revista del Plata, ma è ricordato in particolare per il figlio Carlos Enrique José Pellegrini Bevans, che fu presidente dell’Argentina, dal 6 agosto 1890 al 12 ottobre 1892, il primo figlio di immigranti ad accedere a quel rango.

Torino. Piazza San Salvario. Marzo 2021. Oggi un obelisco in Piazza San Salvario ricorda l’evento. Sulla sua sommità spicca la stella simbolo della massoneria, dai cui ranghi provenivano molti dei “compromessi” nei moti.
Altro studente protagonista a San Salvario fu Carlo Beolchi, di Arona. Falliti i moti, riuscì il 14 aprile a imbarcarsi a Genova, con molti altri esuli, sul brigantino Licurgo, diretto in Spagna. Nel 1824 esulò a Londra e ricorda il Manno, «acquistò ricchezze, e con esse soccorreva esuli e bisognosi». Ritornò nel 1850 a Torino, dove morì il 6 giugno 1867.
Tra i capi dei moti del 1821, Carlo Emanuele Asinari di San Marzano, marchese di Caraglio, fu condannato a morte in contumacia, andò in esilio prima in Svizzera e poi a Londra, rimanendo comunque sempre in contatto con i movimenti rivoluzionari. Nel 1835, revocata la condanna, poté ritornare in Piemonte (anche se gli venne vietato di stabilirsi nella capitale). Negli ultimi mesi di vita gli fu permesso di tornare a Torino, dove morì il 22 ottobre 1841.
Guglielmo Ansaldi, che era nato a Cervere nel cuneese il 4 settembre 1776 da Andrea e Clara Marino, dopo una carriera nell’esercito sabaudo e l’esperienza di capo dei moti di Alessandria, raggiunse Genova, ultimo focolaio della rivoluzione. A Genova, tuttavia, non restò al comandante di Alessandria, come a molti altri patrioti, che imbarcarsi al fine di sottrarsi alla condanna a morte in contumacia. Da Genova, Ansaldi si recò in Spagna, dove combatté a fianco dei liberali. Nel 1830 passò in Francia, a Parigi, Lione e Grenoble, continuando a cospirare attivamente per la libertà italiana. Nel 1842 ricorse a Re Carlo Alberto e, ottenuto l’indulto, poté rientrare in patria. Nel 1848 fu reintegrato nel grado di tenente colonnello e il 16 maggio 1848 collocato a riposo col grado di colonnello. Morì a Savigliano, la città natale dell’amico Santa Rosa, il 19 gennaio 1851.
L’eroe dei moti piemontesi, Santorre di Santa Rosa, raggiunse pure lui Genova e da lì s’imbarcò per la Francia. Costretto all’esilio per sfuggire al capestro, si arruolò volontario e morì combattendo in Grecia contro i turchi nel 1825, un anno dopo l’avventura di Byron, che il 1° gennaio 1824 con una sua nave sfuggiva alla cattura della flotta turca, per morire malatissimo, per una infiammazione ai polmoni, alla vigilia del prestito inglese alla Grecia e alla sua prossima nomina a presidente della commissione per la destinazione dei fondi. Il poeta ribelle morì alle sei di sera del 19 aprile 1824. Era il Lunedì dell’Angelo. Nell’ora della sua morte si scatenò un uragano impressionante.
Celebrare i moti piemontesi del 1821, significa anche ricordare come il destino di tre eroi romantici si incrociò. Oltre a Santorre di Santa Rosa e a Lord Byron, ci fu un esule volontario dal Regno di Sardegna, il conte Carlo Vidua.
Tutti e tre, duecento anni fa, tre grandi uomini, rivoluzionari, romantici e grandi ribelli, per un desiderio di libertà, di indipendenza, di affermazione, morirono lontano dal «carcere natìo»: l’Europa della Restaurazione.
Tutti e tre, in modo diverso, parteciparono attivamente alla rivoluzione della Grecia negli anni Venti dell’Ottocento. Vidua anticipò Lord Byron e Santa Rosa: arrivò in Grecia nella primavera del 1821. Gli ultimi due, invece, arrivarono più tardi e vi morirono come due antichi guerrieri: Byron il 19 aprile 1824 a Missolungi, Santa Rosa l’8 maggio 1825 a Navarino.

Carlo Vidua ritratto da Étienne Bouchardy (1797-1849) a Parigi nel 1825. Museo Civico di Casale Monferrato.
Carlo Vidua, Conte di Conzano, nato a Casale Monferrato il 28 febbraio 1785, fu il più grande viaggiatore d’inizio Ottocento. Prima dei moti del 1821 era intimo degli intellettuali che facevano parte della cerchia del Principe Carlo Alberto, in particolare di Cesare Balbo, Roberto d’Azeglio e Santorre di Santa Rosa. Vidua era l’intellettuale più grande, e più anziano di qualche anno, tra i giovani alfieriani-foscoliani, riuniti in epoca napoleonica nella Società dei Concordi. Dopo la Restaurazione, essi vedevano nell’ascesa di Prospero Balbo il preludio di un regime costituzionale.
Carlo Vidua, proprio per sfuggire all’opprimente ombra della Restaurazione, diventò non solo un esperto viaggiatore, ma un esploratore, e morì a quarantacinque anni, in Indonesia, il 25 dicembre 1830, a bordo della corvette Ternate del capitano Le Doux.
Una vita avventurosa, ricca di emozioni e di pericoli. Lo studioso dei viaggi di Vidua divide la narrazione in tre grandi tour. Il primo, dal 1818 al 1821, tra Francia, Inghilterra, Danimarca, Svezia, Russia, Impero Ottomano, Egitto e Grecia. Il secondo, dal 1825 al 1826, tra Canada, Stati Uniti d’America e Messico. L’ultimo, dal 1827 al 1830, tra India, Cina, Manila, Filippine, Indonesia e Nuova Guinea.
Il primo grande tour, comprende anche una quarantena che il viaggiatore dovette imporre a se stesso alla fine del 1821. Dopo Cipro e Rodi, Vidua sbarcò ad Atene, mentre la città era in preda alla rivoluzione. Vidua, non si trova lì per caso, come potrebbero far pensare le lettere pubblicate (e censurate pesantemente nel Regno di Sardegna alla loro uscita) da Balbo nel 1834. Il suo interesse per la politica lo spinge in Grecia prima di Byron e dell’amico Santa Rosa (che quando arrivò ad Atene, nel gennaio 1825, ritrovando su una colonna del tempio di Teseo il nome di Vidua, vi scrisse accanto il proprio).
Vidua è un ribelle e la sua vita è uno spettacolo senza precedenti. Byron, letto e conosciuto assai bene dagli amici piemontesi, si pone al centro delle sue narrazioni in veste di personaggio titanico (Manfred), in continua lotta contro le avversità del fato.
Santorre di Santa Rosa è ricordato da Vidua, nel suo ultimo viaggio, su un taccuino: «On the Piemontese Revolution by Count Santa Rosa. N. 37. Non ho potuto trattenermi dal voltolar di nuovo questa storia si ben scritta, e le cui macchie vengon da imperizia politica, e da calda fantasia, del però ben intenzionato, ottimo, infelice autore degno di lunga memoria».
In India, Vidua conobbe un esule piemontese dei moti del 1821, Antonio Riccardi di Lantosca. Nel 1821 era capitano dei cavalleggeri del re. Secondo il Manno, morì «nelle Indie» nel 1832. Uno nota di polizia nel 1839 lo ritiene invece al servizio della Persia. Il capitano scrisse a Vidua delle lettere piene di riconoscenza per l’aiuto prestatogli in India: «solo vi bastò il nome mio, per ispirarvi quel puro e nobile sentimento, che degno è soltanto delle belle Anime Italiane». Da Benares, nel luglio 1829, Antonio Riccardi di Lantosca informa Vidua di nuove lettere e lo ringrazia per i consigli.
Occorre comprendere le ragioni per le quali un singolare destino accomuni un’intera generazione di giovani intellettuali piemontesi: essi furono segnati dalla sorte dell’esilio, a volte volontario. Nel rapporto tra Carlo Vidua e Cesare Balbo, bisogna rilevare che Balbo, dopo i moti del 1821, fu punito da Re Carlo Felice, che non gli perdonò le idee liberali, così da indurlo alle dimissioni da ufficiale dell’esercito sabaudo e costringerlo in esilio fino al 1824, allorché ebbe il permesso di ritornare in Piemonte a condizione di starsene confinato nel castello di Camerano. Solo nel 1826 ebbe il permesso di rivedere Torino e di muoversi liberamente nel regno. Questo era il destino di un moderato in Piemonte!

Museo del Risorgimento di Milano. Giugno 2011.
BIBLIOGRAFIA
Angelo Brofferio, Storia del Piemonte dal 1814 ai giorni nostri, Torino, Stabilimento Tipografico di Alessandro Fontana, 1849.
Santorre di Santa Rosa, Storia della rivoluzione piemontese del 1821. Versione eseguita sulla terza edizione francese, Torino, 1850.
Giuseppe Ottolenghi (a cura di), Reminiscenze della propria vita. Commentario del conte Ludovico Sauli d’Igliano, Roma-Milano, due volumi, Società Editrice Dante Alighieri, 1908.
Antonio Manno, Informazioni sul Ventuno in Piemonte, Firenze, Tipografia della Gazzetta d’Italia, 1879.
Santorre di Santa Rosa, Delle speranze degli italiani, Milano, Casa Editrice Risorgimento R. Caddeo & C., 1920.
Francesco Salata, Carlo Alberto inedito. Il diario autografo del re. Lettere intime ed altri scritti inediti, Milano, Mondadori, 1931.
Franco Della Peruta, Storia dell’Ottocento. Dalla Restaurazione alla “belle époque”, Firenze, Le Monnier, 1992.
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Aldo A. Mola, Silvio Pellico. Carbonaro, cristiano e profeta della nuova Europa, Milano, Bompiani, 2005.
Pietro Civalieri, Memorie storiche di Alessandria, parte I, 1759-1821, a cura di Roberto Livraghi, Gianluca Ivaldi, Gian Maria Panizza, Alessandria, Archivio di Stato di Alessandria e Associazione Città Nuova Alessandria, 2006.
Filippo Ambrosini, Santorre di Santa Rosa. La passione e il sacrificio, Torino, Edizioni del Capricorno, 2007.